culture migranti: Pino, profughi italiani in Italia

Pino, madre di Fiume, e padre di Pola, ha sentito spesso nella sua infanzia i racconti dei parenti fuggiti dall’Istria nel ’48 e poi dei loro pellegrinaggi come profughi per tutta l’Italia. “Ci siamo resi conto solo da grandi di quello che era successo, ci sono voluti più di 60 anni per riportare a galla tutto quello che era successo”. |
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di Giulia Angeletti
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1948. Le due famiglie del padre e della madre di Pino arrivano a Udine, e da lì smistati nel campo profughi di Catania: “Era una comunità di più di cento persone che stavano nell’attuale campo da calcio del Catania. Ogni famiglia aveva assegnati tot metri quadri, e lo spazio tra una famiglia e l’altra era delimitato da delle coperte”.
“Mio padre nel ’48 era di leva, e pur essendo italiano era stato reclutato da Tito nell’esercito jugoslavo. Li c’era il divieto di parlare italiano, e chi veniva sorpreso veniva appeso nudo dalle finestre. Dopo due anni, con solo addosso la divisa dell’esercito jugoslavo è fuggito, e ha chiesto asilo politico all’Italia, dove per fortuna c’erano già i nonni. È finito così pure lui a Catania”.
5 anni passati a Catania, poi un anno ad Ancona, dove grazie ai fondi del piano Marshall molti profughi hanno potuto ricevere una casa popolare. “Noi a Catania siamo stati fortunati, altri sono capitati in posti molto peggiori, come ex caserme. Anche ad Ancona, nella odierna Facoltà di Economia c’era un campo profughi e un campo pure a Jesi. I più sfortunati sono stati deportati nel campo di concentramento dell’isola Calva”.
Poi da Ancona la famiglia di Pino si sposta a Torino: “Erano gli anni ’60, qui non c’era niente, niente lavoro, ne prospettive. A Torino invece c’erano molte industrie che offrivano buone possibilità, come la Fiat”. E poi parlando della loro condizione: “A Torino non eravamo neanche meridionali, eravamo solo profughi. Da bambino mi hanno dato spesso dello zingaro, e lo dicevano in modo spregiativo”.
“Quello che è successo alla nostra gente è successo a guerra finita, per questioni razziali. Bastava che fossi italiano per essere infoibato, fascista o comunista non cambiava niente”. “Solo ora si inizia a parlare di queste cose, la gente ha subito un sacco di angherie anche quando era arrivata in Italia, molti sono stati tacciati di essere fascisti. I libri di scuola certe cose le hanno voluto tacere, perché non c’era interesse nè da destra nè da sinistra”.
Pino ci parla poi dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia con sede a Roma, che è stata rifondata nel 2004 e che ha diramazioni anche all’estero come quelle in Argentina, Australia e Nuova Zelanda. Pino ricopre il ruolo di Delegato Nazionale di Fiume per la provincia di Ancona.
“Ci siamo conosciuti un po’ per caso su internet. Adesso l’Associazione si sta impegnando molto per ripristinare usi e costumi istriani”.“Mi sento molto legato in particolare al dialetto. Mi è capitato molte volte di non avere mai visto una persona, ma di riconoscerla dal dialetto”
“Quella era una zona con un mescolanza di etnie. Nelle carte di identità veniva sempre specificata l’etnia, e la nostra era italo-ungherese. Ma ad un’analisi più approfondita le cose non sono così semplici: il mio cognome, Ritschl, ha un’origine austriaca, ma ci sono poi molti cognomi francesi. Poi ultimamente abbiamo scoperto di avere una parente ebrea, ed è da li che derivava l’abitudine di mia nonna di lasciare sempre al sabato il piatto per l’ospite”.


Questo è un articolo pubblicato il 30-11--0001 alle 00:00 sul giornale del 21 febbraio 2008 - 11202 letture
In questo articolo si parla di immigrati, giulia angeletti
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