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la storia ritrovata: Il triste epilogo dell'anarchico Michele Schirru

4' di lettura Senigallia 30/11/-0001 -
Chi attenta alla vita del Duce attenta alla grandezza dell’Italia, attenta all’umanità, perchè il Duce appartiene all’umanità”.
(stralcio della sentenza di morte del Tribunale Speciale Fascista emessa nei confronti dell’anarchico Michele Schirru).

di Paolo Battisti


Il regime fascista, nell’arco del ventennio che rimase al potere, condannò all’esilio circa 700.000 oppositori politici, mandò al confino 13.316 persone, fece processare dal Tribunale Speciale 5.619 individui (con condanne complessive che ammontarono a tre ergastoli e 27.735 anni di carcere), e fece sottoporre a vigilanza speciale circa 160.000 dissidenti.
Per quanto riguarda gli internati antifascisti presenti nelle patrie galere, il loro numero raggiunse i 2.711, tra i quali almeno 150 erano rappresentanti dei vari movimenti anarchici presenti nella penisola.
Durante il periodo fascista gli anarchici subirono una repressione sistematica: le principali organizzazioni libertarie quali l’Unione Anarchica Italiana e l’Unione Sindacale Italiana vennero sciolte d’autorità e dichiarate fuorilegge in quanto “associazione sovversive”, le sedi anarchiche e i giornali furono chiusi, i militanti incarcerati, inviati al confine, perseguitati, sottoposti ad una stretta vigilanza e a volte fatti sparire in silenzio.
Nonostante le enormi difficoltà operative l’opposizione anarchica al regime sopravvisse, e diede vita ad una sotterranea opera di propaganda del dissenso contro il regime attraverso giornali, scritte murali, volantini, ma anche portando a termine azioni dirette contro gli uomini e le strutture fasciste.
Negli anni venti e trenta del novecento numerosi anarchici italiani in esilio, individualmente o collettivamente, concepirono piani per attentare alla vita di Benito Mussolini, nella convinzione che la sua uccisione avrebbe prodotto una crisi irreversibile del regime, dato lo stretto legame esistente tra il fascismo e la personalità carismatica del suo capo.
Si trattava di azioni che implicavano una dose di estremo coraggio da parte di chi si accollava l’onere di uccidere il Duce, dal momento che tali missioni erano estremamente rischiose; senza contare che si trattava di azioni molto pericolose anche sotto il profilo politico: mancare il bersaglio poteva significare (come poi effettivamente avvenne in alcuni casi) di contribuire indirettamente ad accrescere il consenso nei confronti del regime ed a giustificare azioni repressive sempre più dure.
Dei vari tentativi di sopprimere Mussolini effettuati da esponenti anarchici solamente uno fu portato materialmente a termine, quello di Gino Lucetti, sebbene la bomba che il libertario originario di Massa Carrara scagliò contro la macchina del duce l’11 settembre 1926 nei pressi di Porta Pia a Roma scivolò sul tetto della vettura ed esplose quando l’auto si era già portata a distanza di sicurezza, provocando a Mussolini solo un semplice spavento.
In altri due casi gli attentatori, Angelo Pellegrino Sbardellotto e Michele Schirru, furono arrestati prima di compiere l’attentato.
Michele Schirru era un anarchico sardo proveniente dagli Stati Uniti; nel febbraio del 1931 venne fermato dalla polizia che lo condusse al commissariato per accertamenti.
Mentre un funzionario si accingeva a perquisirlo, Schirru impugnò una rivoltella e saprò un colpo.
Ne seguì una colluttazione violenta che portò al ferimento dell’anarchico e di tre agenti.
In seguito la polizia perquisì la stanza di Schirru all’Hotel Royal di Roma, dove alloggiava, e vi rinvenne due bombe.

Al processo (nel quale venne accusato di aver voluto attentare alla vita del Duce), Schirru si difese dicendo di aver progettato l’attentato per le sue idee anarchiche, per vendicare i compagni confinati nelle isole e nella speranza che se fosse riuscito ad eliminare fisicamente Mussolini il fascismo si sarebbe dissolto entro un breve lasso di tempo.
L’anarchico dichiarò al processo che era comunque da parecchio tempo che aveva desistito dall’effettuare materialmente il progetto.
La domanda di grazia però venne rifiutata.
In questi casi il Tribunale Speciale (composto da giudici militari designati personalmente da Mussolini), servendosi delle leggi eccezionali introdotte nello stato fascista nel novembre 1926 dopo “l’attentato Zamboni”, che reintroducevano in Italia la pena di morte abrogata nel 1888, estendendola agli attentatori contro il Capo del Governo, e che equiparavano l’intenzione di commettere il reato al reato compiuto, condannò a morte Schirru mediante fucilazione.
L’esecuzione venne affidata ad un plotone di camicie nere sarde, spontaneamente offertesi per riscattare l’onta che Michele Schirru, con il suo atteggiamento, aveva gettato sulla patria sarda.
Spinta dalle autorità fasciste, la sorella di Schirru chiese la radiazione di quest’ultimo dalla famiglia, e il permesso di poter riprendere l’antico cognome Esquirro.
L’Osservatore Romano, il 1 giugno del 1931 (in sottintesa polemica con il regime), comunicò in breve la notizia, scrivendo che Schirru era stato giustiziato perchè ritenuto colpevole di aver avuto “l’intenzione di uccidere il Capo del Governo”.





Questo è un articolo pubblicato il 30-11--0001 alle 00:00 sul giornale del 29 ottobre 2005 - 9267 letture

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